
Cattive Acque – È il 6 Gennaio nel 2016 e nel New York Times spicca un articolo che racconta della storia dell’avvocato Robert Billot e di come la sua carriera, dapprima come avvocato difensore di grandi società e aziende chimiche, si sia completamente stravolta quando nel 1998, pochi mesi prima di diventare ufficialmente partner della compagnia Taft Stettinius & Hollister dopo un periodo di attività forense, ricevette una chiamata da parte di un cliente inatteso
A chiamarlo fu Wilbulr Tennant da Parkersburg, un allevatore locale, che rammentò di come venne a ritrovarsi nel bel mezzo di una moria di massa del suo bestiame “mine cows are dying left and right (letteralmente le mie mucche stanno morendo a destra e a manca)” attribuendo la colpa alla DuPont chemical company che operava nella zona con un sito di grandezza di ben 35 volte superiore a quella del Pentagono situato più a monte rispetto alla sua azienda e specificando che tutti i tentativi di denuncia circoscritti al loco vennerò semplicemente soppressi dall’intervento della DuPont grazie all’enorme influenza che essa stessa aveva sul territorio venendo così respinto da politici e forze dell’ordine.
Nonostante non fosse la sua fascia d’appartenenza Billot, avvocato difensore di aziende chimiche (tra cui più volte collaborò anche con avvocati della DuPont) e non di privati cittadini, si sentì moralmente legato a questa faccenda e, a seguito di un incontro con Tennant che gli mostrò prove a sostegno della sua teoria e anche dopo una sua lunga riflessione personale, decise di intraprendere una campagna giudiziaria nei confronti della DuPont. Era l’estate dell’anno successivo quando vennero intraprese le prime mosse legali a scapito dell’azienda ottenendo però solo delle promesse di controlli da parte di studiosi commissionati dalla DuPont; tale insoddisfazione fece proseguire la causa fino ai giorni nostri (ultimo aggiornamento Maggio 2019) con la presentazione di una class action (2018) con richiesta di risarcimento a favore di tutti i cittadini interessati.

CATTIVE ACQUE – IL FILM
Tra le varie conseguenze mediatiche scaturite da questa vicenda una su tutte coinvolse un pubblico veramente vasto introducendolo all’argomento e fu proprio il film thriller Cattive Acque (Dark Waters) diretto da Todd Haynes che ha come base storica proprio l’articolo del 2016 The Lawyer Who Become DuPont’s Worst Nightmare che raccontava nel dettaglio tutto l’evolversi della vicenda.
Viene infatti rappresentata accuratamente la vicenda sotto un genere thriller per risultare più impattante visivamente e per non escludere nessun dettaglio anche fosse raccapriccinte così come la realtà normalmente abitua.
IL CONTESTO AMBIENTALE
Per quanto cruda la faccenda possa sembrare e per quanto queste cose possano apparire lontane, complice anche il fatto che si parli di grandi aziende chimiche su estensioni difficilmente riproponbili in un contesto europeo (o ancora meglio italiano) e quindi paragonate alle immensità dell’America e dell’Asia, questa è a tutt’oggi una faccenda che ci riguarda da vicino e che si ripercuote non solo su quella che è la nostra campagna (e quindi sui nostri allevamenti o produzioni agricole più in generale) ma anche nella vita di ogni giorno di ognuno di noi: a riprova di ciò basti vedere tutte quelle che sono le principali cause di morte negli ultimi anni tra cui spiccano i vari tipi di tumori con un 30% del totale (fonte ISTAT, 2017), dietro solo alle malattie cardio-circolatorie (40%), che vengono causati da inquinamento dell’aria e dalla ricchezza di elementi ben poco naturali presenti anche nella nostra quotidiana alimentazione.
Nonostante l’Italia sia rinomata per il tenore di vita e la qualità in ambiti quali l’alimentazione è bene anche ricordare come questa caratteristica/unicità si stia via via ristringendo a luoghi sempre più circoscritti. Restano quindi piccoli rimasugli come baluardi situati in luoghi o residenze nelle zone ben lontane dalle metropoli/grandi città più industrializzate dove le persone entrano costantemente in contatto con salubrità dell’aria spesso pessima e alimenti non propriamente sani per l’organismo poiché spesso trattati eccessivamente con agenti chimici (per garantirne il pieno rendimento estetico e produttivo) o perché provenienti da allevamenti di animali fatti crescere e mantenuti nel modo e con il sostentamento sbagliato (per massimizzare la resa di ogni capo); c’è infatti questa differenza più evidente soprattutto là dove le famiglie tendono all’auto-sostentamento e la qulità dei prodotti è direttamente proporzionale al tipo di approccio utilizzato per il loro ottenimento.
Nel mercato del grossolano, ovvero ovunque la qualità dei prodotti risulta meno incidente sugli acquisti, quelli che sono gli ultimi spiragli di un ritorno alla qualità vengono purtoppo spesso denigrati dagli acquirenti che, vuoi per disponibilità economiche non spesso sufficienti o vuoi per una poca sensibilizzazione in merito, tendono a cercare il risparmio di costo.

Ma cosa comporta tutto ciò?
Per quanto l’azione dell’uno possa sembrare irrilevante il complesso, il susseguirsi di singoli, ha un impatto a catena più che rilevante dapprima causando la progressiva scomparsa dei singoli produttori indipendenti a favore delle compagnie più grandi e delle multinazionali e a seguire con un aumento dell’inquinamento globale. È infatti noto come le differenze nella tipologia di allevamento, mantenimento, coltivazione e gestione tra l’estensività e l’intensività siano abissali, la prima prediligendo più l’aspetto naturale e i metodi di mantenimento sostenibili sia per l’ambiente che per i consumatori e la seconda utilizzando il minimo per dare il massimo e sfruttando al limite le possibilità di un terreno potenziandolo tramite l’implementazione di mezzi impropri.
Riconosciuto il potenziale problema nascono quindi mezzi di arginazione, si cerca la sensibilizzazione, si prova a dar valore al cambiamento positivo tramite la creazione di categorie, di marchi e di metodi che aiutino le piccole realtà a rialzarsi e a fare la differenza: diventa quasi di moda il bio tra gli acquirenti favorendo così l’agricoltura di nicchia e lo sfruttamento minimo delle risorse (causando così un minore danneggiamento all’ecosistema), escono campagne di sensibilizzazione con lo scopo di migliorare l’ideologia comune per invogliare e convincere le persone al giusto consumo selettivo e al minor spreco e crescono movimenti attivisti per diffondere la cultura del giusto vivere e dell’esistenza sostenibile in più parti del mondo.
Ma non basta..
Così come il film e l’articolo del NYT, tutti quegli avvenimenti che in continuazione accadono nel resto del mondo sono monito di insufficienza ancora radicata nei metodi dato il negazionismo di massa che sovrasta ancora il crescente (se pur a fatica) cambiamrnto e gli incentivi sono ancora scarsi; come se non bastasse alcuni stati, anche maggiori a livello d’importanza, remano contro a queste ideologie sostenendo la via puramente economica rendendo così quasi impossibile il progredire di questo miglioramendo e condannando il futuro nostro e dei prossimi rovinando il pianeta.
Riccardo Fornari
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