Unitus Restauro: come funziona uno dei corsi più particolari offerti dal nostro ateneo

Unitus Restauro
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Elisabetta, studentessa dell’ultimo anno del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali, tutor DIBAF e manager dell’account @unitusrestauro ci racconta come funziona uno dei corsi più particolari offerti dal nostro Ateneo.

Sono uno studente del quinto anno di liceo. Perché dovrei scegliere questo corso?

Scegliere questo corso significa voler salvare qualcosa che ami, per me essere restauratore è una vera e propria missione. Oltre a questo è un immenso privilegio: vuol dire avere la possibilità di entrare in contatto diretto con le opere, intervenire materialmente per preservarle. Le altre professioni che orbitano attorno al mondo dell’arte si occupano di studiarne la storia e le tecniche esecutive, scoprirne nuovi esemplari o studiarne la composizione, senza però poter operare sul loro stato di conservazione.

Una missione, quindi.

Esattamente, parlo di una missione personale, assimilabile all’esperienza vissuta da un medico. Esistono anche delle organizzazioni che gestiscono missioni per salvaguardare la World Heritage, specialmente nelle aree a rischio, come “Restauratori senza Frontiere”. Le tecnologie di oggi permettono fortunatamente di ricostruire frammenti importanti di opere danneggiate nelle aree di conflitto: tramite l’utilizzo di documentazioni fotografiche effettuate prima del danneggiamento si possono realizzare delle ricostruzioni e stampe 3D dei frammenti che possono essere applicate in modo reversibile sull’opera, ridandole completezza. Questa tecnica di ricostruzione molto accurata viene utilizzata anche da noi all’UNITUS.

C’è stato un momento in cui hai pensato ‘Ho scelto il corso perfetto per me’?

Al primo anno ero una bambina in un negozio di caramelle. La cosa che mi ha emozionato di più e mi ha fatto sentire che quella era la mia strada è stato sentire una mia docente restauratrice dei materiali lapidei, Maria Grazia Chilosi della CBC, parlare per mezza giornata buona delle tecniche esecutive di Michelangelo, Canova e Bernini.

La docente ha restaurato numerose opere di questi artisti durante la sua carriera lavorativa, in particolare quelle di Bernini, ed ha scoperto molti particolari tecnici che erano rimasti fino a quel momento sconosciuti persino agli storici. Il restauro del Ratto di Proserpina, ad esempio, ha permesso di scoprire un piccolo inserto in marmo posizionato sulla sommità della nuca della dea – un punto invisibile se non osservato dall’alto – che è stato aggiunto dall’artista stesso, in quanto aveva esaurito il marmo a disposizione per completare la scultura. Questa soluzione gli permise di terminare l’opera e di consegnarla al suo committente e protettore, Scipione Caffarelli-Borghese. Se Michelangelo si fosse scontrato con dei problemi analoghi non avrebbe concluso l’opera, lasciandola incompiuta come è avvenuto con alcune delle sue sculture.

L’esperienza che mi è stata trasmessa dalle docenti del corso è stata davvero preziosa, ma nel mio percorso di studi sono stati fondamentali i lavori svolti in laboratorio e durante il cantiere del 2015. Quell’estate abbiamo restaurato il fonte battesimale del Duomo di Viterbo e durante le operazioni di pulitura abbiamo ritrovato, all’interno di uno dei decori più nascosti della base, un piccolo ritaglio di giornale accartocciato risalente alla metà del ‘900 circa e nel quale era raffigurata una Madonna. Ci siamo chiesti se chi lo aveva nascosto lì lo avesse fatto chiedendo una grazia, ed è molto probabile che le cose siano andate in questo modo. Quel ritrovamento ci ha resi partecipi non solo della storia dell’opera che stavamo restaurando, ma anche di quella della comunità della chiesa. Un privilegio da vivere in punta di piedi, con profondo rispetto, ma anche con grande entusiasmo.

Un percorso che umanamente trasmette molto, quindi. Ci vuole sicuramente molta dedizione.

Sì, ci vuole decisamente molta dedizione. L’ultimo cantiere sul quale ho lavorato è stato Carsulae, una città romana sull’antica via Flaminia, nei pressi di Terni. L’UNITUS sta lavorando nella ‘Domus dei mosaici’ insieme agli archeologi, restaurando i tappeti musivi e mettendoli in sicurezza durante il loro rinvenimento. In realtà l’elemento fondamentale durante un cantiere è il metodo, ma sicuramente stare sotto il sole a luglio con 40° C a riattaccare minuscole tesserine una ad una con pinzette e spatola richiede anche una grande passione. Si tratta di tesserine di marmo che si possono riallettare solo se si conosce la loro esatta ubicazione d’origine, ci sono numerosissimi dettagli e problematiche da gestire; ed è in questi momenti che ti senti come un medico, perché la stessa cura che questi mette nel curare un paziente, la metti nel curare un’opera.

Cosa ti ha spinto a scegliere l’UNITUS per intraprendere questo percorso in restauro?

Ci sono professori straordinari che ti seguono tantissimo, e in più la Tuscia è stata la prima a tenere corsi di preparazione ai test d’ingresso gratuiti. Il corso di laurea infatti è a numero chiuso, per entrare occorre sostenere tre prove: la prima consiste nel riprodurre in scala un’opera riportandone solo le linee principali, in modo da mostrare di aver capito il disegno e il funzionamento di un determinato dettaglio, come il panneggio di un abito; la seconda verte sull’acquerello, e consiste nel colmare delle lacune bianche riproponendo i colori dell’opera, provando così di comprenderne colore e sfumature; infine la terza prova prevede un orale di inglese, storia dell’arte, chimica, fisica e archeologia. In più, bisogna esplicitare per quale percorso ti candidi e in base a questo studiare le tecniche esecutive del campo scelto.

Esistono più percorsi?

Alla Tuscia è possibile scegliere tra due percorsi, il PFP1 e il PFP2. Il primo prevede una specializzazione nel restauro di marmi, pietre dure, dipinti murali, stucchi, gessi e mosaici; mentre il secondo riguarda dipinti su tele, tavole, sculture lignee dipinte e opere d’arte contemporanea.

Personalmente credo che la scelta del percorso debba essere valutata non solo in base alla tipologia di opere che si prediligono, che ci “parlano di più”, come direbbe la mia docente della CBC, ma anche in base alla propria indole. Il PFP1 è un percorso che implica lavorare in cantiere, dove si può stare su un ponteggio o in ginocchio su un pavimento, è una specializzazione dinamica e anche molto faticosa, ma perfetta per chi ama viaggiare, lavorare in posti sempre nuovi e dove spesso le opere saranno conservate nel loro luogo di realizzazione. Il PFP2 è invece una specializzazione perfetta per chi sogna di lavorare in un laboratorio e sviluppare ottime conoscenze non solo dei materiali tradizionali, ma anche di quelle dell’arte contemporanea di complessa conservazione e musealizzazione.

A prescindere dal percorso che si predilige è comunque una scelta di vita che ti porta a viaggiare, a sviluppare un ampio bagaglio di conoscenze interdisciplinari e che, nonostante la grande fatica, è molto appagante. 

Prima parlavi dei docenti del corso. Cosa puoi dirci in merito?

I docenti del corso sono decisamente preparati e seguono molto da vicino i propri studenti. Tra i restauratori abbiamo ad esempio Lorenza D’Alessandro – la restauratrice famosa per la foto del National Geographic che la ritrae durante le operazioni di restauro della tomba di Nefertari – ma anche i restauratori della CBC che seguono grandi cantieri in tutta Italia e moltissimi altri, ognuno di loro con decine di anni di esperienze svolte in Italia e all’estero su opere straordinarie. Immaginate la fontana di Trevi, la fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona, le storie di San Francesco nella Basilica superiore di Assisi, la Loggia di Raffaello a Villa della Farnesina, dipinti di Modigliani, il Colosseo, il Duomo di Orvieto, la Torre di Pisa e la Pietà Rondanini di Michelangelo: queste sono solo alcune delle opere su cui hanno lavorato i nostri docenti. Il livello è altissimo e di conseguenza a noi studenti viene richiesto molto impegno, ma non potremmo davvero chiedere di meglio.

Ovviamente anche i nostri docenti ordinari hanno un curriculum straordinario, ad esempio il professor Ulderico Santamaria, docente di Archeometria e Scienze dei Materiali, è il direttore dei laboratori di diagnostica del Vaticano.

E invece la vostra tesi come funziona?

La nostra tesi è divisa in due parti: una è funzionale all’abilitazione alla professione – quello di restauro è infatti un percorso professionalizzante –  e l’altra al conseguimento della tesi magistrale. Per la parte di abilitazione ci si occupa del restauro di un’opera, accompagnati da un ampio gruppo tesi composto da docenti interni ed esterni all’UNITUS.

Il restauro prevede una preventiva documentazione fotografica e grafica, per attestare lo stato di conservazione in cui si trova l’opera prima dell’intervento, una approfondita ricerca bibliografica sulla sua storia e delle analisi diagnostiche, – che oltre a essere indispensabili per una maggiore conoscenza dell’opera, dalla sua tecnica esecutiva ai materiali impiegati per la sua realizzazione – ci guidano attraverso la comprensione dello stato di conservazione, facendoci ricomporre tutti i dati raccolti durante le ricerche per poi orientarci durante l’intervento vero e proprio di restauro. Per la tesi magistrale invece si sviluppa un approfondimento, di carattere umanistico o scientifico, sull’opera che si sta restaurando. Si può scegliere di approfondire dettagli della tecnica esecutiva, così come sperimentare dei nuovi prodotti per la pulitura. Io ad esempio farò una tesi sperimentale sugli oli essenziali delle piante officinali che riescono a rimuovere dalle opere gli accrescimenti di biodeteriogeni, ovvero alghe, muschi, licheni e batteri.

Le discussioni avvengono separatamente durante la stessa giornata, anche se l’elaborato è presentato in un unico tomo. Il percorso intero è impegnativo, può sembrare un vortice, perché i primi due anni sono densi di studio, ma la fatica è ricompensata dalla passione. Al quinto anno poi raggiungi la consapevolezza che la tua tesi diventerà la tua creatura, che sarà una delle cose più belle che avrai fatto e ti renderai conto che ne vale la pena.

Tornando indietro rifarei tutto, niente escluso.

Il 27 luglio 2020 si sono tenute le prime sedute di laurea del corso di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali UNITUS. Sei allieve immatricolate nell’a.a. 2014/2015Ilaria Cavaterra, Alessia Fusco e Francesca Groppi (Pfp1) e Sarah Barreca, Maria Rosaria Caira e Fabiola Vitali (Pfp2) -hanno esposto le loro tesi.

“Il conferimento di queste prime lauree abilitanti in conservazione e restauro dei Beni Culturali è un importante traguardo per noi ragazzi e per l’Università degli Studi della Tuscia. La possibilità di discutere di discutere fisicamente in facoltà, anche con la presenza di parenti più stretti, è stata di un’immensa soddisfazione. La proclamazione nel giardino della facoltà ha concluso, memorabilmente, un percorso professionalizzante di 5 anni.”

  • Fabiola Vitali, neolaureata in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali.

Leggi anche – In Italia: quando per essere un’eccellenza devi avere quattro lauree (Link)

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Claudia Capasso

La presidente di Univercity, studentessa di Investigazioni e Sicurezza. In poche parole: jack of all trades, master of none.
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